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MILANO CAPITALE DI INCERTEZZA URBANISTICA di Roberto Biscardini dallo speciale di ecoIDEARE n.42

03 novembre 2017

Recentemente mi sono trovato a discutere con un amico sul termine “gentrificazione”, parola non delle migliori, troppo sociologica, usata per descrivere un processo di trasformazioni urbane che attiva “il miglioramento (si fa per dire) del patrimonio immobiliare, il cambiamento della gestione abitativa da affitto a proprietà, l'ascesa dei prezzi e l'allontanamento o la sostituzione della popolazione a basso reddito da parte delle classi medie”.
Cosa che a Milano conosciamo bene dagli anni ’70.
Discussione che consentì di porci una domanda successiva: è stata l’insipienza della classe politica, di fronte agli interessi immobiliari e finanziari prevalenti, che ha permesso, soprattutto negli ultimi due decenni, di accettare trasformazioni urbane di grande rilevanza, ma del tutto discutibili? Frutto di logiche esclusivamente capitalistiche, fuori dalla nostra tradizionale cultura di città europea. Trascinando con sé, come dice Vittorio Gregotti, “architetture come esibizione, che non danno senso alla città”, e parlando di grattacieli, “i grattacieli sono ormai diventati qualcosa da mostrare come un trofeo” e aggiunge ”in fondo basterebbe pensare alle case torri del Medioevo, anche quelle erano in qualche modo grattacieli ante-litteram, ma avevano un senso, politico, e non erano solo un giocattolo da mostrare.”
Dicevamo insipienza della politica o assenza di strategia di lungo termine, diventata esse stessa strategia? Un’assenza di strategia che ha consentito da un lato di accettare per anni lo stato di degrado e l’abbandono di molte importanti aree semicentrali della città, rimaste lì inutilizzate, e dall’altro di subire “per sfinimento” progetti di trasformazione “qualsiasi”, a qual punto accettati dall’opinione pubblica come la “manna venuta dal cielo” per toglierci di mezzo le schifezze dell’abbandono pregresso.
Abbiamo quindi assistito all’incapacità da parte dalla mano pubblica di avere un disegno strategico (a volte persino dichiarato come scelta politica voluta: “la cultura dell’indifferenza localizzativa”) o c’è stato, in modo più o meno consapevole, un perfetto disegno strategico per consentire al momento buono alla rendita di fare grosso modo ciò che voleva?
Non si spiegherebbe altrimenti una costante della politica urbanistica milanese, secondo la quale si preferisce acquisire, anche a caro prezzo, aree private per realizzare opere pubbliche, e si tengono inutilizzate aree pubbliche che poi vengono in qualche modo cedute ai privati per realizzare propri interventi.
Per non andare molto lontano, perché la seconda sede della Università statale è stata realizzata sulle aree della Bicocca del signor Pirelli, anziché sulle aree pubbliche dello scalo ferroviario di Porta Vittoria? Per consentire di costruire su quello scalo pubblico, case e casette ad uso privato e di dubbio gusto?
E ancora, perché si è  scelto di realizzare Expo sulle aree di Cabassi pagandole ad altissimo prezzo? C’erano, come ci sono ancora, milioni di metri quadri di aree pubbliche che potevano essere utilizzate ad un costo molto minore per la casse comunali. E ancora perché la Città della Salute deve finire sulle aree super private di Sesto San Giovanni? E non altrove, in città, su aree pubbliche, magari propria a Porta Vittoria?

Di fronte a questa confusione “di ruoli”: il comune rinuncia a svolgere la funzione fondamentale di pianificatore, almeno delle grandi funzioni urbane, e rinuncia a dare indicazione sulla destinazione d’uso delle aree, con il paradosso, come dice l’architetto Giorgio Goggi, che “ a Milano abbiamo una quantità sempre maggiore di aree disponibili per la rigenerazione urbana e, al contempo, molte importanti funzioni pubbliche vengono destinate fuori città, lasciando a destinazioni di generico mix funzionale - a prevalenza residenziale - le aree urbane collocate in luoghi strategici per l’accessibilità.  … Dato preoccupante, che in futuro potrebbe generare costi più elevati per l’erario, per le famiglie e le imprese ed amplificare la congestione degli spostamenti nell’area urbana”.
E alla domanda dell’opinione pubblica che vorrebbe sapere quale destinazione  avranno gli oltre cinque milioni di metri quadri di aree pubbliche oggi inutilizzate in città, dalle famose aree degli Scali ferroviari (per i quali abbiamo fatto una giustissima battaglia per impedire che il Comune, sindaco e assessori, consentissero a FS una pura finanziarizzazione di quelle aree, senza alcuna chiarezza sulla loro destinazione futura), di Expo, dei Gasometri alla Bovisa, dell’ex-macello, dell’ortomercato e porto di Mare, oltreché delle Caserme non più utilizzate, cosa si risponde? Nulla.
Per non parlare della confusione che regna da anni sulle aree di Città Studi, aree destinate a liberarsi, se alcune sedi universitarie si dovessero trasferire sulle aree di Expo e se due importanti ospedali si dovessero trasferire a Sesto San Giovanni sulle aree della ex-Falck.
Insomma non si risponde quasi nulla, perché sia le giunte di centrodestra che l’ultima di centrosinistra non hanno voluto scegliere, mettendosi ad aspettare sul ciglio del fiume. E facendo di questo atteggiamento un vanto della propria cultura di governo. Che non si sporca le mani. Ma fa governare altri interessi anziché quelli generali.
Noi diciamo più semplicemente, che la gran parte di queste aree pubbliche devono essere utilizzate per funzioni pubbliche, perché spetta all’amministrazione pubblica dire della destinazione d’uso dei suoli e in particolare della localizzazione delle grandi funzioni urbane. Spetta all’amministrazione pubblica dire dove devono essere localizzati i grandi nuovi ospedali, le università, gli uffici pubblici, ma anche gli impianti sportivi, le strutture per il tempo libero, i grandi nuovi parchi e certamente anche l’edilizia sociale.
Ecco appunto l’edilizia sociale.
Spetterebbe all’amministrazione comunale avere le idee chiare per realizzare un grande piano di edilizia economica e popolare e sociale per soddisfare fabbisogni pregressi, in essere e futuri. Un piano da definire, anche innovativamente (pensiamo all’autocostruzione che farebbe di molto abbassare i costi) dal punto di vista quantitativo (quanta edilizia sociale sovvenzionata per i meno abbienti, quanta edilizia a canone moderato per diverse categorie di domanda: nuove famiglie, studenti, docenti, residenti temporanei, eccetera) e dicendo dal punto di vista urbanistico dove realizzarle (nei luoghi di massima accessibilità trasportistica ferroviaria per esempio).
Un piano che potrebbe essere facilmente realizzato se si avesse il coraggio di destinare una parte, ancorché limitata, delle proprie risorse di bilancio (che ci sono), ma con continuità, e se si facesse ancora, come si faceva una volta, una,politica delle aree pubbliche e della casa come servizio sociale.
Ma non si è fatto. Anzi si è teorizzato (in contrasto con ciò che avviene in tutto il resto d’Europa) che i piani di edilizia economica e popolare (in applicazione alla legge 167 che non è stata abrogata) fossero cosa vecchia e che è bene che l’edilizia sociale sia messa  a carico dei costruttori, come un obbligo realizzativo nell’ambito dei loro interventi privati.
Con il risultato che, soprattutto in un momento di crisi del mercato immobiliare, non è successo nulla e il degrado sociale delle nostre periferie e dei quartieri più popolari (che hanno bisogno di grandi interventi di riqualificazione, compreso l’abbattimento e la ricostruzione) è pesantemente peggiorato.

Ma torniamo a noi.
E’ chiedere troppo alla politica di scegliere e di decidere assumendosi le proprie responsabilità? Credo assolutamente di no, se l’obiettivo rimane quello di rendere la città, migliore per i cittadini che la abitano, per la qualità della vita e dell’ambiente.
In attesa di un Pano di Governo del Territorio che sappia fare delle scelte, magari anche a medio e lungo termine, così come si fa in tutte le grandi capitali del mondo (altro che la validità quinquennale dei nostri PGT), rimane il problema di chi decide e che margine hanno i cittadini di partecipare in modo democratico, con regole certe, e popolare al processo di formazione delle decisioni urbanistiche.
Oggi i cittadini non potendo di fatto partecipare e non potendo proporre, vengono orientati nella sostanza a esprimersi soltanto attraverso dei No. Non hanno alcun diritto di dire la propria idea sulle scelte strategiche e localizzative della grandi funzioni. Non hanno alcuna informazione. Non sono inseriti in un processo in cui possano dire la loro al momento più opportuno. Ai cosiddetti tavoli di consultazione, vengono chiamati al massimo i cosiddetti stakeholder che rappresentano interessi consolidati (spesso forti), di categoria e di gruppo o le Spa pubbliche che ormai pubbliche non lo sono più. Soggetti destinati ad essere presto oggetto di una certa ribellione.





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